Un Impegno per gli anziani e per i più piccoli.

Anziani e bambini sono tra le categorie più fragili ed esposte alle difficoltà della vita ed alle cattiverie delle persone.
Un impegno in loro favore, per quanto minimo possa essere, è doveroso per chi ha l'illusione di poter "cambiare il mondo".
L'impegno per tutelare i più piccoli dal bombardamento di sostanze chimiche e dannose, profuso con la pubblicazione di libri e allarmi sull'argomento, con l'attivazione di mense biologiche e genuine nelle scuole di alcuni Comuni, non può e non deve impedire anche il lavoro più concreto.
Per questo, oltre a promuovere il benessere dei bambini attraverso l'attivazione delle mense biologiche ed agevolare la venuta in Italia di bimbi stranieri bisognosi di cure mediche, nel 1997 volli dedicare qualche ora a settimana ad accudire i vecchietti in una casa di riposo. Nel 2005, gli eventi mi hanno portato incontro ad una comunità cattolica che accoglie bambini ammalati e adulti stranieri in difficoltà.
Inutile dire che le necessità di affrontare la burocrazia e la legge ogni giorno erano e sono la prassi in una comunità simile.
Come iniziai a fare volontariato, nel 1997, in una casa di riposo per anziani.
All'inizio era un pretesto per sentirsi meno soli ed inutili, forse persino più buoni. Allietare gli altri, in fondo, appaga noi stessi. Il nostro sentirci buoni occultava l'egoismo quotidiano, anche inconsapevole, aiutava a ristabilire un sereno rapporto con la nostra tumultuosa coscienza, risanava l'autostima sempre in bilico in un mondo di fanatismo da successo e rampantismo.
Anche se faticavamo ad ammetterlo, il volontariato donava più benefici a noi che lo facevamo che a chi lo riceveva.
Con il tempo, imboccare, accudire, scambiare due parole di conforto coi nonnini della casa di riposo, divenne un piacere al quale non intendevamo sottrarci, un impegno a cui assolvevamo con gioia. Quell'infantile, innocente, tenerezza dei cent'anni era diventata la nostra compagna di strada.
Forse, il quotidiano rapporto e confronto con la sofferenza, il dolore e la morte, ci aiutava ad amare ed apprezzare maggiormente la vita, ringraziando dei doni e dei privilegi ricevuti. 
"Meglio morire che dipendere dagli altri" mi sussurrò una vecchina dopo avermi chiesto di accompagnarla in stanza. "Ma no signora, lei non dipende perchè non deve chiedere. Per me è un piacere ed un privilegio accompagnarla", mentii.
Era davvero un piacere per me, ma lei dipendeva dagli altri, eccome.
Quanta saggezza c'era in quei bambini invecchiati.
Nei nostri cuori continuava a galoppare la gioventù, l'amore per le cose belle, divertenti e giovani e tuttavia l'ospizio con il suo carico di abbandono, di attesa, di limbo, ci aiutava a non restare prigionieri di un mondo virtuale popolato di chimere artificiali e clichè televisivi.
"Che senso hanno", ci chiedevamo, "casa, carriera, felicità e soldi se chi ci ha creato giace in attesa di compiere i suoi giorni in un luogo freddo e anonimo?".
In effetti erano luoghi da cui scappare. Quelle vecchie mura, evocavano morte. Persino i volontari scarseggiavano. Meglio accudire i bambini, senza dubbio, quelli veri, che crescono e rappresentano, con i loro sorrisi e la loro gaiezza, il futuro, la vita. I vecchi incarnano le nostre paure, proiezioni di decadenza. Meglio fuggirne. Paghiamo caro l'alloggio in cronicario pur di allontanarcene il più in fretta possibile. Eppure un giorno rifletteremo sul fatto che nessuno potrà restituirci il tempo non passato con un genitore o con un nonno...
Il tempo che persi lontano dalla nonna già semi paralizzata o dai nonni tentai di recuperarlo con Zio Umberto, rinchiuso dai figli in una casa di riposo a Napoli.
Loro erano troppo impegnati nella professione e nella carriera e lui divenne d'impaccio. Approfittarono di una ristrutturazione della vecchia casa per dare allo zio il benservito.
Una scelta sofferta immagino, soprattutto perchè nessuno potè restituire loro quel tempo perso.
Ogni volta che tornavo a Napoli andavo a trovare quello che per me era ormai l'unico "nonno" in vita.
Un signore d'altri tempi, un uomo dell'800 con la mente aperta e la curiosità di un giovanotto. Aveva vissuto e patito la prima e la seconda guerra mondiale, perdendo familiari ed amici. Il suo italiano, aulico ed arcaico, svelava l'appartenenza ad un altro mondo, così come i suoi oggetti e documenti personali: il bastone e il porto d'armi del Regno d'Italia.
A volte mi chiedeva che fine avesse fatto Francesco Giuseppe e se in quegli anni in Austria governasse il figlio.
Oppure mi raccontava delle sue esperienze a "Costantinopoli" e di quando era imbarcato sul piroscafo a motore e si recava a Vienna per "interessi amorosi": le ragazze viennesi erano "belle e arrendevoli".
L'esilio prigionia a Curzola nella ex Jugoslavia ed il lavoro di "appaltatore" in Puglia e in tutto il Meridione.
Quando, nel 1994 gli dissi che a Napoli si votava per Bassolino o per la Mussolini, sentendo quel cognome ingombrante portato dalla bionda "nipotina" rispose sinceramente stupito: "n'ata vota!?".
La raffinatezza del linguaggio e la nobiltà d'animo lo rendevano ancor più solo tra gli altri vecchietti e tra gli inservienti.
Lui, come Zio Giulio, accompagnato dalla stessa sorte, ricoverato in una specie di convento ad Acerra, erano ormai residuati dell'800.
Pensai alla tristezza ed alla solitudine di chi si trovava in un mondo caotico e volgare di cui non riconosceva più nè il linguaggio, nè i canoni di cavalleria e di pensiero di un secolo che non c'era più. Li compativo molto più per questo che non per la loro condizione materiale da "arresti domiciliari", come dicevano loro stessi.
Zio Giulio e Zio Umberto erano davvero soli, attaccati ai ricordi di oggetti, linguaggi e gesti gentili, a quei ritagli di riviste e giornali che illustravano bellezze artistiche, quadri e palazzi signorili che, da letterati proletari, non abitarono ma amarono.
L'estetica ed il senso del bello che si trascinavano dietro da epoche lontane non trovava conforto nella vuota frenesia della città degli anni '90.
La Napoli che loro avevano vissuto, la Napoli tradizionale, verace, nobile e popolare al contempo, proletaria e di antica gentilezza non esisteva più.
La Napoli di Eduardo De Filippo era stata irrimediabilmente deturpata e si ritrovava senza più memoria di sè.
La vera morte per un uomo e per un popolo è perdere la memoria. I vecchi napoletani, oggi più che mai, rappresentano il patrimonio umiliato della città, il suo sangue, la linfa e le radici.
Giulio e Umberto non avevano perso la memoria, ma la città intorno a loro sì.
Si spensero, rispettivamente, a 90 e 103 anni.
Dopo molto tempo, riconobbi quelle figure ottocentesche, quel senso dell'estetica e della raffinatezza di concetti, sottile ironia e arcaico umorismo, in Giuseppe detto Pippo, rinchiuso a Vimodrone con le sue due lauree.
Con Pippo il catanese diventammo amici.
Mi recavo per il mio turno di volontariato una volta la settimana con grande gioia in cuore ma anche con apprensione. Temevo di non trovarlo più sulla sua sedia a rotelle o nel suo letto. Mi riconosceva sempre con un sorriso impagabile ed una battuta in francese o in siciliano stretto. Se ci fossimo conosciuti prima avremmo certamente condiviso passioni ed avventure. Sentivo con lui una rara affinità di spirito.
Aveva 89 anni quando il destino lo chiamò ad interrompere la nostra amicizia terrena.
Con Dina ed altre "Mamme" non smettemmo di frequentare gli stanzoni della casa per vecchietti di Vimodrone.

Come iniziai a collaborare con la Casa per stranieri e bambini malati di Milano.
Dopo molti anni, nel 2005, rincontrai ancora quelle mamme per le quali furono spalancate le porte del Paradiso, ma questa volta provenivano da Paesi lontani: peruviane, eritree, cinesi, albanesi.
La piccola Mbambi, nipote di padre Adeodato, era tornata dal Congo con me, accompagnata dallo zio, per curare una grave malformazione alla spina dorsale e si trovava ospite dalle suore di Maria bambina, a Milano.
La casa era una struttura di ricovero ed accoglienza per stranieri e migranti ammalati che avevano bisogno di cure in Italia.
Lo slogan che meglio identificava quella casa era "Possa il mondo accogliere ogni uomo", sbattendo la porta in faccia solo alle fobie razziste di demagoghi e accattoni di voti facili.
La casa era popolata, oltre che da suore moderne, altruiste e volontari, da giovani madri con figli sventurati, abbandonate dai propri compagni.
Le patologie erano davvero tante e molti i casi drammatici, eppure era palpabile nell'aria una atmosfera di serenità e pace.
Ogni persona poteva appoggiarsi tranquillamente all'altra: un piccolo nucleo di cristianesimo realizzato.
Riuscimmo a far venire in Italia per cure la piccola Mambi non senza superare ostacoli e barriere burocratiche.
Ci volle un anno per ottenere i visti dalla nostra ambasciata in Congo e l'ambasciatore non nascose il timore che lo zio della bambina si sarebbe potuto perdere "nella bruce di Milano" non tornando più in patria.
Timori infondati che tuttavia svelavano l'atteggiamento di molte ambasciate e consolati italiani nei Paesi di emigrazione: un vero e proprio muro di gomma per respingere le richieste di visto. Un atteggiamento, sicuramente ispirato direttamente dal nostro Governo, che costringeva molti africani, in assenza della possibilità di arrivare in Europa legalmente, a scegliere la via obbligata dei carrozzoni del mare e della clandestinità.
Scaricati nel mare gelido e in tempesta a centinaia di metri dalla riva, nella speranza di essere salvati dalle motovedette della Guardia costiera.
La chiusura delle frontiere legali spalancava le porte delle frontiere illegali e faceva lievitare i conti in banca dei trafficanti di esseri umani.
Eravamo coriacemente intenzionati a proseguire il nostro lavoro per aiutare fratelli e minori africani - e non solo - a venire in Italia per cure mediche.
Qualcuno lassù ci aiutava e la nostra testa era molto più dura di quella di qualsiasi burocrate o diplomatico in carriera.
Dedicare anche solo un'ora a quei bimbi ed a quelle giovani madri abbandonate da mariti frettolosi, era un sollievo.
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