Normativa sulla caccia

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L'attività venatoria è regolata dalla legge n. 157/92 “Norme per la protezione della fauna omeoterma e prelievo venatorio”, legge quadro di disciplina di tutta la materia della caccia e tutela della fauna selvatica.
Questa legge, sostituisce la legge n. 968 del 1977, e nasce a seguito del referendum del 1990 che proponeva l’abolizione della caccia su tutto il territorio italiano e, che per mancanza del quorum, era stato annullato. 
E disciplina il prelievo venatorio  di fauna selvatica prescrivendone le modalità e attribuendo le competenze degli enti locali e degli organi preposti alla tutela della fauna e la loro autonomia in materia.
Con la legge è quindi stabilito il principio che la fauna selvatica appartiene al patrimonio indisponibile dello Stato.
Lo stato può derogare a questo principio nelle forme e nei limiti stabiliti dalla legge, e può rilasciare appunto in deroga, al cacciatore una concessione, la “licenza di caccia” che consente di abbattere esclusivamente le specie elencate e nei periodi, orari, mezzi, stabiliti dalla legge stessa.
Quindi in Italia, non esiste un “diritto alla caccia”: l’attività venatoria concreta un interesse del cacciatore a non vedersi negato il rilascio della licenza  di caccia nel caso in cui possieda tutti i requisiti richiesti dalla legge.

Oltre a definire quali sono le specie che si possono cacciare e quelle che, invece, sono assolutamente protette, la legge ordina la materia fissando le modalità a cui si devono attenere le regioni nella stesura delle leggi regionali, con precisi calendari venatori, piani faunistici e pianificazione del territorio. Per controllare maggiormente l’applicazione della normativa nazionale e internazionale, la normativa regionale può regolamentare la materia solo in maniera più restrittiva rispetto alle disposizioni della legislazione nazionale.
Ci sono voluti parecchi anni affinché tutte le regioni si mettessero in regola con l’emanazione di leggi di applicazione della 157 ed oggi, a distanza di più dieci anni tutte le regioni le hanno adottate, nonostante ce ne siano ancora alcune che risultano essere in parziale difformità con il disposto della l57.

Innoltre annualmente, le regioni devono emanare i calendari venatori con i tempi, le modalità, i luoghi e le specie cacciabili e, in attuazione delle direttive europee e delle Convenzioni internazionali (Direttiva 79/409CEE e Convenzione di Berna) la durata deve andare dalla terza settimana di settembre alla fine di gennaio e comprendere massimo tre giorni settimanali esclusi il martedì e venerdì, giorni di silenzio venatorio. Nell’ottica di una programmazione dell’attività venatoria a più lungo termine le regioni, coordinando i piani provinciali, devono emanare anche i piani faunistico venatori quinquennali che contengono la pianificazione del territorio agro-silvo-pastorale e il censimento della fauna selvatica, previo parere dell’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica, l’organo tecnico-scientifico di consulenza e di ricerca sulla caccia e la tutela della fauna.

Nonostante l’applicazione della legge sulla caccia sia ormai piuttosto uniforme, restano regioni che periodicamente emanano calendari venatori o piani faunistico-venatori in parziale difformità con la stessa causando grave danno alla fauna e mettendo in pericolo diverse specie protette sia con il prolungamento della stagione venatoria sia con l’apertura della caccia a tali specie.
Le soventi violazioni della legge quadro hanno portato ad accesi dibattiti sull’opportunità di modificarla o rafforzarla, in realtà sarebbe più corretto affermare che per il momento la strada più corretta è quella di sollecitare le regioni e i governi affinché ne  attuino il pieno rispetto e l’applicazione in modo corretto nell’ottica della protezione e conservazione del patrimonio faunistico e naturale.


Il fondamento della legge 157/92 sta sicuramente nell’art. 1 che stabilisce il principio secondo cui l’esercizio dell’attività venatoria è consentito, purché non contrasti con l’esigenza di conservazione della fauna selvatica (secondo comma) evidenziando, in tal modo, la necessità di porre al primo posto la protezione dell’ambiente in tutte le sue forme e imponendo a carico della P.A. un obbligo di conservarla e proteggerla. Tale principio è ulteriormente rafforzato nel primo comma dell’art. 1 quando si afferma che   la fauna selvatica fa parte del patrimonio indisponibile dello stato e la sua uccisione e cattura può essere autorizzata solo tramite un atto di concessione nei termini e nei modi stabiliti dallo stesso atto di concessione. In tal modo si vieta l’indiscriminata apprensione della fauna selvatica “concessa” solo a chi ha una regolare “licenza”.

La legge 157, però non dispone un elenco di specie protette mentre, all’art. 18, stabilisce quali sono le specie cacciabili in deroga ad una generalizzata protezione. Tali specie sono cacciabili sono in determinati periodi di tempo, orari e luoghi, pertanto resta vigente la generale protezione durante gli altri periodi dell’anno. In aggiunta a questo principio di protezione, però, all’art. 2 la legge vieta la caccia ad alcune specie particolarmente protette indipendentemente da qualunque ulteriore regolamentazione e la cui uccisione comporta sanzioni più pesanti rispetto alle specie protette in via generale.

In generale, a seconda degli illeciti commessi, la legge 157/92 prevede sanzioni amministrative o addirittura penali (artt. 30 e 31).

Rientrano tra le ipotesi di reato: la caccia nei periodi di divieto generale a tutte le specie, ovvero nei mesi esclusi dai calendari venatori, la caccia nei giorni di silenzio venatorio durante la stagione venatoria, la caccia o la detenzione di specie particolarmente protette o la caccia con mezzi vietati, la caccia nei parchi, l’uccellagione e la tassidermia se non autorizzata. Sono invece soggette a sanzioni amministrative: la caccia in forme non previste e senza licenza, nei fondi chiusi e nelle ore non consentite, e l’importazione di fauna senza autorizzazione e l’utilizzo di richiami non autorizzati.

Questo sistema sanzionatorio rivolto a punire le violazioni da parte di chi detiene comunque la concessione, ha grande portata ed è senz’altro innovativo, ma non tiene conto del bracconaggio, ovvero della caccia illegale.

Pertanto, mancando un’espressa menzione nella legge quadro si può considerare attuabile il riferimento al cosiddetto “furto venatorio” sulla base del fatto che la fauna è patrimonio dello stato (artt. 624 e 625 c.p.), o al danneggiamento nel caso di abbattimento della fauna senza apprensione.

Anche la giurisprudenza, nell’impossibilità di utilizzare gli artt. 30 e 31 della legge 157, ha riconosciuto che, nel caso di caccia senza tesserino o licenza si commette furto o danneggiamento ove non si apprenda l’animale ucciso o ferito (Pretura di Firenze, 29 ottobre 1993).

Per quanto riguarda la pianificazione del territorio agro-silvo-pastorale, di competenza delle regioni, nella legge 157 è disposto che una quota dal 20 al 30% del territorio (dal 10 al 20% per i comprensori alpini) venga destinato al divieto di caccia, un’altra fino al 15% alla caccia privata e il restante suddiviso , invece, in Ambiti Territoriali di Caccia.  Gli ATC vengono gestiti da organi direttivi composti da rappresentanze delle associazioni venatorie, agricole, ambientali e dagli enti locali. Il fondamento della “residenza venatoria”, ribadito in un parere dell’INFS del 24.11.1999, è teso a stabilire un costante ed univoco rapporto tra il cacciatore e il territorio in cui esso esercita la sua attività con evidenti ricadute gestionali, legate alla possibilità di responsabilizzazione e  coinvolgimento diretto del cacciatore anche con la partecipazione alle spese e agli interventi di miglioramento ambientali. Non essendo però fissato il tetto massimo del numero di cacciatori in ogni ATC si verifica molto spesso il cosiddetto “nomadismo venatorio” con la possibilità data a ogni cacciatore di muoversi in diversi ATC. Contro la possibilità di cacciare in vari ATC si è espresso anche il TAR Lazio con ordinanza del 27 ottobre 1999, confermata dal Consiglio di Stato, che ha annullato la delibera provinciale con cui si autorizzava la costituzione di soli due ATC nel Lazio e la possibilità di cacciare in entrambi da parte dei cacciatori iscritti nella provincia di Roma.

Se questo è l’impianto normativo della legge 157/92 per sommi punti, va comunque ricordato che in ausilio a tale legge il  giudice si serve anche delle disposizioni del codice penale sul maltrattamento di animali (art. 727 c.p.) e della legge sulle aree protette (L. 394/91) nonché delle leggi che regolamentano l’ordinamento degli enti locali, ove insorgessero questioni sulle competenze in materia di caccia e protezione della fauna.


La caccia nelle aree protette

L’attività venatoria nelle aree protette  è disciplinata dall’uso combinato delle leggi 157/92 (legge quadro sulla caccia) e 394/91 (legge quadro sulle aree protette).

In particolare la legge 394/1991,  agli articoli 11, comma 3, lett. a) e 22, comma 6, sancisce il divieto di caccia nei parchi, rispettivamente  nazionali e regionali e l’art. 30 della stessa stabilisce le sanzioni per chi contravviene al divieto (arresto fino a sei mesi e ammenda da  duecentomila lire  a venticinque milioni, pene che vengono raddoppiate in caso di recidiva). Nei parchi naturali regionali e nelle riserve naturali regionali sono consentiti solo “prelievi faunistici e abbattimenti selettivi necessari per ricomporre squilibri ecologici” (Art. 22, comma 6, L. 394/1991).

La legge 157/1992, invece, all’articolo 21, comma 1, lett. b), ribadisce il divieto di esercizio venatorio “nei parchi nazionali, nei parchi naturali regionali e nelle riserve naturali, conformemente alla  legislazione nazionale in materia di parchi e riserve naturali“ e all’art. 30, comma 1, lett. d), prevede sanzioni penali per chi caccia nei parchi (arresto fino a sei mesi e ammenda da lire 900.000 a lire 3.000.000).

Entrambe le leggi quindi stabiliscono il divieto assoluto di caccia nelle aree protette.

Sono sorte, comunque, numerose controversie e divergenze d’interpretazione in ordine a questi divieti, in particolare sulla vigenza del  divieto di caccia nei parchi e nelle riserve naturali regionali e nelle aree protette nazionali il cui territorio non sia stato ancora delimitato dalla tabellazione.

La Magistratura è però intervenuta con numerose sentenze che hanno definitivamente chiarito anche questi dubbi, nel senso che il divieto di caccia  vige anche in questi casi.

In particolare la Corte Suprema di Cassazione ha emanato recentemente alcune sentenze  che dovrebbero aver posto fine a questi dubbi interpretativi.

Citiamo, a titolo d’esempio, le pronunce più importanti  e recenti : Corte Suprema di Cassazione, III Sezione Penale, sentenza n. 2487 del 20.6.1997, che ha confermato la validità del sequestro di  un fucile ad un cacciatore “sorpreso in atteggiamento di caccia in un area protetta”, anche se priva di delimitazione stabilendo che “il vincolo giuridico ambientale sui parchi nazionali discende direttamente dalla legge ed opera ancor prima della completa delimitazione (…) sicché le autorità competenti possono adottare misure di salvaguardia ed i privati hanno l’obbligo di astenersi da atti esplicitamente vietati, come la caccia ”. Ed ancora: Corte Suprema di Cassazione, III Sezione Penale, sentenza n. 952 del 19.3.1999,che ha stabilito: “Quanto al riconoscimento della buona fede degli imputati, deve affermarsi l’assoluta irrilevanza, ai fini della configurazione del reato di esercizio venatorio in area protetta, dell’assenza di tabellazione del perimetro del Parco, poiché i confini della aree protette (in particolar modo parchi e riserve nazionali e regionali) sono pubblicati su Gazzette e Bollettini Ufficiali con tutte le relative indicazioni tecniche e topografiche, sicchè incombe in modo specifico al soggetto cacciatore un obbligo peculiare di informazione che ne rafforza la presunzione di conoscenza”.

Per quanto riguarda il divieto di caccia nelle aree protette regionali: Corte Suprema di Cassazione, III Sezione Penale, sentenza n. 3132 del 27 marzo 1996, che ha stabilito che “ il divieto di caccia in aree di parco, sancito dagli artt. 11 e 22 della L. 394/1991 (e sanzionato, rispettivamente, dall’art. 30 della stessa legge e dagli artt. 21 e 30 della L. 157/1992) è immediatamente applicabile su tutto il territorio nazionale comprese le regioni a statuto speciale”. In sostanza la Corte ha confermato che cacciare nelle aree protette regionali è reato poiché, una volta scaduto il termine per le regioni per il recepimento della legge quadro sulla caccia, vi è un implicito recepimento della normativa nazionale anche per le aree protette regionali preesistenti alla legge quadro, rendendo quindi operativo il divieto di caccia anche per questi parchi.


Il ruolo delle regioni e la cosiddetta “caccia in deroga”

La Direttiva comunitaria n. 409 del 2 aprile 1979, concernente la conservazione degli uccelli selvatici, contiene norme di immediata applicazione sul territorio nazionale che proibiscono la caccia di alcune specie avicole ritenute di rilevante interesse naturalistico (Es: passero, storno). La Direttiva, infatti, è stata attuata in Italia con l’art. 1 della   Legge  157/1992  (legge quadro sull’attività venatoria).

La Direttiva comunitaria prevede, all’art. 9,  la possibilità per gli Stati membri di derogare, in determinate circostanze,  al generale divieto di caccia di suddette specie.

Elenca, al primo comma, in maniera tassativa e precisa, i casi e le condizioni in cui si può ricorrere alla deroga: solo i casi di estrema gravità quali la tutela della salute e della sicurezza  pubblica, la sicurezza aerea, la prevenzione di gravi danni alle colture, al bestiame, ai boschi, alla pesca ed alle acque, la protezione della flora e della fauna. A questi casi tassativi si deve aggiungere l’altra condizione essenziale perché la deroga sia conforme alla Direttiva, ovvero che “non vi siano altre soluzioni soddisfacenti” per ovviare ai problemi sopra elencati.

Al comma 2, prescrive che le deroghe devono menzionare: le specie che formano oggetto della deroga, quindi a temporaneo regime di caccia, i mezzi, gli impianti ed i metodi di cattura o uccisione, le condizioni di rischio di predetti metodi, le circostanze di luogo e di tempo per le quali vige la deroga, l’ autorità che gestisce il regime di deroghe ed effettua i controlli.

La stessa Direttiva, inoltre,  non permette l’esercizio della deroga per usi venatori, intendendo questa attività come esercizio ricreativo. Se la deroga, infatti, fosse attivabile per questi motivi, si avrebbe il paradosso che tutte le specie potrebbero essere oggetto di caccia, purché in piccole quantità.

Questa tesi è stata sostenuta anche dal Procuratore Generale presso la Corte di Giustizia Europea, durante il procedimento concluso con la sentenza del 7 marzo 1996 emanata  nel corso di un procedimento dinanzi al Tribunale Amministrativo regionale del Veneto, per l’annullamento del Calendario venatorio regionale del 1992 che prevedeva l’esercizio della caccia ad alcune specie protette dalla direttiva. In tale procedimento la Corte ha precisato a quali condizioni l’art. 9 della Direttiva 79/409 consenta agli stati membri di derogare al divieto generale di cacciare le specie protette, divieto derivante  dagli articoli  5 e 7 della medesima direttiva, stabilendo che :”l’art. 9 (…) deve essere interpretato nel senso che esso autorizza gli Stati  membri a derogare al divieto generale  di caccia delle specie protette, derivante dagli artt. 5 e 7 della stessa direttiva, soltanto mediante misure  che comportino un riferimento, adeguatamente circostanziato, agli elementi  di cui al n. 1 e 2 del medesimo art. 9″.

Nel contesto italiano, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 272 del 22/7/1996, ha stabilito che eventuali deroghe alla disciplina comunitaria sono di esclusiva spettanza dello Stato, nel rispetto delle numerose prescrizioni ineludibili che la normativa comunitaria presuppone, precisando inoltre che le regioni hanno potestà  modificativa del testo comunitario solo nel senso di “limitare e non di ampliare il numero delle eccezioni al divieto di  caccia”.

A seguito di tale sentenza è stato approvato dal Governo il D.P.C.M. 27 settembre 1997 che detta le modalità di esercizio delle deroghe di cui all’art. 9, paragrafo 1, lett. c) della Direttiva 409/79. Il Consiglio dei Ministri ha stabilito, coerentemente con le pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia Europea, che spetta allo Stato dettare la disciplina generale ed uniforme per tutto il territorio nazionale riguardante l’ammissibilità delle deroghe, al fine di “garantire l’omogeneità di applicazione della normativa comunitaria volta alla conservazione degli uccelli selvatici”. Le deroghe stesse  possono essere adottate dalle regioni, d’intesa con i ministri dell’ambiente e delle politiche agricole,  alle condizioni e modalità  specificate dall’art. 2, che si applicano anche alla cattura per la cessione a fini di richiamo di cui all’art. 4, comma 4, della L. 157/92. L’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica viene nominato quale autorità abilitata a dichiarare le condizioni stabilite dagli artt. 2 e 3 del decreto.

Perché, quindi, un provvedimento regionale di deroga sia legittimo deve ottenere, oltre all’intesa ministeriale, il controllo positivo dell’I.N.F.S.

Nonostante la questione della caccia in deroga sembrasse risolta nel senso di una maggiore chiarificazione del ruolo e competenza delle regioni, è stato ulteriormente necessario l’intervento della Corte Costituzionale, che, con due recentissime sentenze, ha nuovamente ribadito il ruolo delle regioni in materia di “caccia in deroga”.

Come si è visto, dopo l’emanazione del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 21 marzo 1997, che prevedeva l’esclusione di numerose specie dall’elenco di quelle cacciabili, di cui all’art. 18 L. 157/92, numerose regioni hanno approvato leggi regionali che prevedono la cosiddetta “caccia in deroga”. In sostanza,  sulla base della lett. c) par. 1 dell’art. 9 della direttiva 79/409CEE, che disciplina i “prelievi misurati”, le regioni hanno reintrodotto tra le specie cacciabili  molte di quelle cancellate dal decreto del marzo ‘97. Tali leggi sono state impugnate e, nella maggior parte dei casi, annullate dal Commissario di Governo, sulla base del fatto che la legge nazionale non consente l’attivazione di deroghe alla direttiva da parte di leggi regionali.

Il Governo, per far fronte a questi conflitti ha emanato un altro Decreto (DPCM 27.9.1997) che detta le modalità di esercizio delle deroghe di cui all’art. 9, paragrafo 1, lett. c) della Direttiva 409/79, stabilendo che spetta allo Stato dettare la disciplina generale ed uniforme per tutto il territorio nazionale riguardante l’ammissibilità delle deroghe

La Corte Costituzionale, su ricorso di alcune regioni, con la sentenza n. 169/1999, ha annullato il DPCM 27.9.1997,  motivandola sulla base di carenze tecniche. Infatti ha riconosciuto che per un provvedimento del genere il Ministero dell’Ambiente avrebbe dovuto  sentire non solo il parere delle commissioni parlamentari e  del Consiglio di Stato, ma anche la Conferenza Stato Regioni.

Nel contempo, però,  la Corte ha emesso la sentenza n. 168/1999 nella quale  ha rilevato che essendo la deroga uno strumento eccezionale, realizzabile solo in rare ipotesi, ovvero come dice la direttiva “quando non ci siano soluzioni alternative”, non può essere riconosciuta come materia di  competenza delle regioni se non in senso ulteriormente restrittivo rispetto alla direttiva.

In merito alle deroghe alle specie non cacciabili, la Corte afferma che le regioni non possono provvedere ad attivare autonomamente le deroghe, in quanto l’esercizio di un siffatto potere si rifletterebbe sulla tutela minima delle specie protette, il cui nucleo è identificato nello Stato. Essendo, dunque, l’interesse primario la tutela degli uccelli selvatici, ottenuto mediante il divieto di caccia nell’interesse non solo nazionale, ma anche internazionale, ne segue che il potere di esercizio di tali deroghe spetti allo Stato e non agli enti locali


Proprietà privata e la caccia. La recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo.

L’esercizio della caccia nei terreni privati, come disposto dalla legge 157/92 è vietato a determinate condizioni. Infatti la stessa all’art. 15 vieta la caccia nei terreni recintati e dove vi sono colture specializzate in atto, e conferisce un diritto ai proprietari di fondi di vietare l’attività venatoria se la richiesta è accolta nei termini previsti e se non ostacola la pianificazione faunistico venatoria. In tutti gli altri casi la caccia è concessa nei terreni altrui anche per il disposto dell’art. 842 del codice civile che prevede che il proprietario di un fondo non può impedire che vi si entri per l’esercizio della caccia, a meno che il fondo non sia chiuso.

Tale situazione normativa si trova anche in altri stati europei e il ricorso di alcuni agricoltori francesi che volevano vietare la caccia nei loro fondi, è arrivato davanti alla Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, che, per la prima volta ha affermato che la caccia nei fondi altrui non recintati è una violazione del diritto di proprietà.

Tre agricoltori francesi, proprietari di meno di venti ettari che si trovano inclusi in un “ACCA” (ovvero in ambiti di caccia che vengono costituiti sia obbligatoriamente sia facoltativamente tramite consorzi), intendevano far escludere i loro terreni dalle zone di caccia. Per ottenere questo risultato, nel 1985, hanno apposto dei cartelli di divieto di caccia intorno al confine dei loro terreni e hanno cominciato contemporaneamente un’azione in via amministrativa e un’azione davanti al Prefetto, che è l’organo competente a decretare l’esclusione dei loro terreni dall’ambito di caccia (ACCA). Il giudice competente ingiunge loro di rimuovere i cartelli con i divieti e, nel 1987, il Prefetto rigetta la domanda dei tre coltivatori costringendoli a presentare ricorso davanti al Tribunale amministrativo di Bordeaux. Anche questo organo giudiziario rigetta nel 1988 la domanda dei tre ricorrenti.

Nel frattempo i tre proprietari hanno iniziato una azione civile innanzi al Tribunale di Grande Istanza, chiedendo alla Corte che venisse loro riconosciuto il diritto di non far parte di un “ACCA” e di poter apporre i cartelli sulla base di quanto previsto dal Codice Agrario francese che, all’art. 365, afferma che nessuno ha il diritto di cacciare nei terreni di proprietà altrui tranne nel caso in cui il proprietario acconsenta. La Corte dà loro ragione.

Gli ACCA si appellano e, nel 1991, la Corte di Appello di Bordeaux riforma totalmente la sentenza del Tribunale di Grande Istanza riconoscendo agli ACCA il diritto di mantenere i terreni dei tre agricoltori al loro interno, così come statuito dalla legge istitutiva degli ACCA, in deroga al citato articolo del Codice Agrario. La Corte di Cassazione conferma la sentenza di appello.
Esperiti tutti i gradi di giudizio nazionali, gli agricoltori sollevano la questione davanti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo che nel 1996 avvia il procedimento contro il governo francese.

Il 29 aprile 1999, la Corte accoglie il ricorso degli agricoltori.

Nella sentenza, la Corte riconosce una palese violazione del diritto di proprietà ad opera della legge istitutiva degli ACCA, la legge Verdeille, in quanto la costituzione di un ACCA si realizza con il consenso della maggioranza dei proprietari dei terreni inclusi, pertanto i piccoli proprietari, come i ricorrenti, sono sottomessi alla decisione di coloro che detengono aree di maggiori dimensioni e vengono quindi danneggiati se contrari alla caccia.

Su questa base, per la prima volta, una Corte europea ha asserito il principio per cui la caccia nei fondi altrui non recintati si configura come violazione dell’assoluto diritto di proprietà, diritto di godere e disporre dei propri beni in modo pieno ed esclusivo, nel caso, limitato dall’esercizio dell’attività venatoria.

La Corte ha motivato questa decisione sostenendo che l’intervento pubblico deve sempre cercare di rispettare un giusto equilibrio tra la salvaguardia  di un fondamentale diritto dell’uomo, quale il diritto al rispetto dei propri beni, e l’interesse generale, mentre l’obbligo imposto ai proprietari di lasciar esercitare la caccia sui loro fondi, persino in contrasto con le proprie convinzioni etiche; è sproporzionato rispetto all’interesse perseguito.

V’è da aggiungere che la Corte ha disatteso anche un altro argomento sostenuto dal governo francese, secondo il quale, in base alla legge Verdeille, i proprietari potevano sottrarsi all’obbligo di lasciar entrare i cacciatori  nei loro fondi recintandoli adeguatamente.

La Corte ha infatti ritenuto che tale “scappatoia” non è ragionevole perché non sempre la recinzione di un fondo è tecnicamente realizzabile senza nuocere all’utilizzazione dei terreni per le finalità che sono loro proprie, e comunque comporta delle spese a volte molto ingenti per il proprietario.

La sentenza della Corte di Strasburgo ha portato alla luce la questione di legittimità costituzionale dell’art. 842 cod. civ. che dispone che “il proprietario di un fondo non può impedire che vi si entri per l’esercizio della caccia, a meno che il fondo sia chiuso nei modi stabiliti dalla L. 157/92 (legge sulla caccia)”.


Giurisprudenza e pareri

Sent. 10 febbraio 1999 n.517013 Cassazione

Caccia – Esercizio – Divieti di caccia – Modifica del calendario generale di caccia da parte della Regione – Omissione del parere obbligatorio dell’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica – Invalidità dell’atto – Sussistenza.

In materia di caccia, l’omissione di un parere obbligatorio quale quello dell’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica previsto dall’art.18 della legge 11.2.1992 n.157, rende invalido, siccome violazione delle regole del procedimento e violazione di legge, l’atto amministrativo con cui la Regione modifica il calendario generale di caccia, che pertanto va disapplicato incidentalmente nel procedimento penale. ( Fattispecie in cui è stata esclusa la sussistenza del reato di cui all’art.30 lett. A) della legge 11.2.1992 n.157 atteso che, dovendosi ritenere in vigore il calendario venatorio generale, la caccia nel giorno considerato era legittima).

Caccia in aree protette

Corte di Cassazione Sez. III pen.

Sent. 29 aprile 1999 n.5457

Caccia – Divieti – Aree protette – Caccia non consentita a seguito di nuova perimetrazione del Parco – Reato commesso anteriormente alla perimetrazione – Principio del favor rei – Applicabilità – Esclusione – Parchi nazionali – Esistenza di cartelli di perimetrazione –Necessità – Esclusione – Reato di esercizio venatorio in area protetta – Assenza di tabellazione – Buona fede degli imputati – Riconoscibilità – Esclusione –Legittimazione processuale associazioni ambientaliste

Ai sensi del combinato disposto degli artt. 21, comma 1, lett. B e 30, comma 1, lett.d,, della L.n.157/92 e dell’art.22, comma 6, della L. n.394/91, l’attività venatoria è vietata all’interno di tutti i parchi nazionali, naturali regionali e delle riserve naturali ed è irrilevante il caso in cui in epoca successiva alla commissione del reato, nel medesimo luogo, la caccia sia stata consentita a causa della nuova perimetrazione operata da una legge regionale, risultando inapplicabile in tal caso il principio del favor rei.

I parchi nazionali, essendo stati istituiti e delimitati con appositi provvedimenti pubblicati su Gazzette e Bollettini ufficiali, non necessitano della tabellazione perimetrale al fine di essere individuati come aree ove sia vietata l’attività venatoria e pertanto non può essere riconosciuta la buona fede degli imputati del reato di esercizio venatorio in area protetta in caso di assenza di tabellazione.

Corte di Cassazione Sez.III pen.

Sent. 26 giugno 1997 n.2487

Pres. Giuliano

Caccia – Aree protette – Aree contigue ad aree protette – Atteggiamento di caccia

Il vincolo giuridico ambientale sui parchi nazionali discende direttamente dalla legge ed opera ancor prima della completa delimitazione, che ha carattere puramente ricognitivo, sicché le Autorità competenti possono adottare misure di salvaguardia ed i privati hanno l’obbligo di astenersi da atti esplicitamente vietati, come la caccia. La legge quadro sulle aree protette (L.n.394/91) consente alle Regioni, d’intesa con gli enti gestori delle aree naturali protette di disciplinare la caccia nelle aree contigue onde assicurare la conservazione dei valori faunistici degli ecosistemi interessati, tenuto conto del carattere dinamico della fauna, che può interessare le aree limitrofe.

Pretura di Teramo

Sent. 24 giugno 1998

Rel. M.M. Di Fine

Esercizio attività venatoria in area Parco – Omessa tabellazione confini – Possesso di strumenti per l’esercizio della caccia – Attitudine di caccia – Sussiste responsabilità – Costituzione di parte civile dell’Ente Parco – Ammissibilità.

Integra gli estremi del reato di cui all’art.30 lett. B. L.157/92, l’inserirsi in area Parco recando con sé un fucile nulla rilevando l’accertata assenza di segnalazioni in loco in ordine al perimetro del Parco. L’Ente Parco ha diritto al risarcimento del danno con riferimento all’ alterazione dell’ordine e dell’equilibrio naturale del proprio territorio e alla lesione alla immagine dell’Ente che vede compromesse le finalità di tutela ad esso affidate.

Specie selvatica

Corte di Cassazione Sez.III pen.

Sent. 27 maggio 1997 n.1286

Pres. Pioletti

Rel. Postiglione

Caccia – Detenzione specie protette provenienti da allevamento– Fauna selvatica – Divieto assoluto di detenzione

Il concetto di fauna selvatica è riferito dalla L.15792 alle “specie”, intese come categorie generali, di mammiferi ed uccelli, dei quali esistono popolazioni viventi stabilmente o temporaneamente, in stato di naturale libertà, sul territorio nazionale. Per alcune categorie espressamente indicate, nonché tutte le altre specie di mammiferi “minacciate di estinzione” in base alla normativa comunitaria ed internazionale, esiste un divieto assoluto ed incondizionato di abbattimento, cattura e detenzione ex art.30 lett.d) L.157/92, senza che possa essere eccepita la provenienza da allevamento. Nel caso di specie è punita la semplice detenzione di cigni e  volpoche (due specie particolarmente protette, la cui detenzione è espressamente vietata dalla legge e sanzionata penalmente), per le quali, benché non fosse richiesto dalla normativa, è stato escluso con accertamento di merito la provenienza da allevamento.

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